top of page

LA VITA NUOVA


La pallida presenza del marmo di Botticino lega due estremi stilistici dell’architettura italiana: il Vittoriano di Giuseppe Sacconi e la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni. Del primo tutto il male possibile è stato detto, fin dalla sua scioccante apparizione sulla scena romana, e solo oggi alcuni ne rivalutano il senso simbolico e la complessità multi-funzionale, se non l’architettura. Del secondo, dopo le polemiche iniziali, tutto il bene è stato detto. A parte l’origine della pietra nulla lega i due edifici che però spiegano con esemplare evidenza il turbinio di idee e passioni che caratterizzò l’architettura italiana del primo ‘900.

Sembra impossibile che a distanza di meno di dieci anni due opere così diverse siano state concepite e costruite, ma se rileggessimo più attentamente la storia dell’architettura italiana, troppo spesso raccontata in termini di opposizioni drastiche e di trasformazioni stilistiche repentine, rileveremmo un panorama ben più complesso e articolato di quanto si legga sulle pagine delle principali “Storie” a nostra disposizione. Inutile aprire polemiche sulle lacune o gli omissis del racconto architettonico nazionale (ma non solo), basti ricordare che quel racconto è ancora viziato da un filtro di ideologismi e strumentalizzazioni che rende ancora opaco il paesaggio che tratteggia. In questa nebbia, forse, le impressioni personali contano di più delle ricostruzioni che si vogliono oggettive.

Per quel che mi riguarda, la scoperta dell’edificio ha seguito, negli anni dell’Università un doppio binario: quello della lettura avida di tutti i testi - italiani e non - che ne parlavano e ne svisceravano storia e geometria, e quello, più personale, delle fughe da Milano, magari la sera o il sabato, e con gli amici comaschi come guide. Vedere dal vero e toccare con mano era l’educazione che ci serviva, allora, ma, in questo caso, sembrava ancor più necessario farlo per non trasformare definitivamente in puro mito o simbolo ciò che, già di per sé veniva presentato come oggetto astratto (come se un’architettura potesse mai esserlo).

Solo recentemente ho potuto visitare l’interno dell’edificio, in precedenza ero riuscito, al massimo, a conquistare un assaggio dell’atrio, essendo la perlustrazione del suo perimetro esterno, l’unica possibilità di conoscenza. Fin dalle prime perlustrazioni, preparate da fotografie d’epoca, saggi o disegni, cercavo alcune cose più che altre. Mi piaceva, ad esempio, quel suo essere una sorta di macchina della visione che, attirando a sé frammenti della città storica come il teatro o il Duomo – e più scorci e retri che fronti – li shakerava insieme a frammenti di collina o tracce urbane, come una sorta di centrifuga o caleidoscopio che, producendo cornici murarie, confezionava fotogrammi selezionati, messi in movimento dal nostro sguardo, nei quali scorrevano nuvole, mezzi o passanti.

Dal bordo di quell’impianto romano rilevato molto più tardi da Gianfranco Caniggia (Lettura di una città: Como, 1963), la Casa del Fascio riassumeva magistralmente la città che la ospitava pur essendone profondamente diversa. Essa interpretava, al massimo livello, l’aspetto inevitabilmente “contestualista” dell’architettura e dell’arte italiane del Novecento, o forse di sempre, quel loro guardarsi attorno, curioso e partecipe, quella capacità poeticamente descrittiva che accomuna le periferie di Sironi ai vortici Boccioniani, ugualmente presente nei ritratti puntuali e nelle dissoluzioni formali, nella classicità di Brasini e in quella di Terragni, al di là delle forme e degli stili.

Allora probabilmente non percepivo le ragioni e i percorsi di quella declinazione italica di temi internazionali che, contaminata dal potere dei luoghi, lasciava intravedere la possibilità di una via originale o di un destino. Solo molto più tardi ho pensato che proprio questo saldo ancoraggio, che agiva nel subconscio di arti diverse, fosse il tratto distintivo di una comunità eterogenea, ma pur sempre comunità, come quella degli architetti italiani. Mi sembrava, anche, che quel modo di tenere assieme Le Corbusier e Palladio, la rivoluzione e il paesaggio antico, potesse essere una forma accettabile di confronto tra storia e modernità, in un momento in cui la Strada Novissima della Biennale di Venezia, sembrava indicare opposizioni radicali.

La Casa del Fascio, ma più in generale Terragni, mi suggerivano, con maggior evidenza di altre vicende, che storia e modernità potevano convivere dentro una medesima esperienza, alimentarsi a vicenda, intrecciarsi. Sembravano indicarlo anche la sofferta evoluzione di quel progetto o di altri di quel tempo, come le poste di Vaccaro a Napoli, che non mi sembrava fosse semplicemente da ascrivere ad un naturale processo di conversione stilistica, avendo a che vedere, piuttosto, con la complessa influenza di un nodo intimamente italiano, come quello del rapporto col passato. Nei progetti di Terragni la memoria era tenuta viva ma, contemporaneamente, la vita poteva diventare, almeno parzialmente, memorabile, grazie all’interpretazione di nuove esigenze di vita, magari anche solo nell’esperienza di un bambino che godeva di sole e natura nel breve periodo della sua permanenza all’asilo Sant’Elia.

I luoghi, potevano diventare memorabili, magari evocando, a partire da un gesto architettonico, sacrifici personali e collettivi che rischiavano l’oblio. È così con il monumento al giovane Sarfatti, difficile da trovare ai bordi di un Altopiano di Asiago, futurista suo malgrado, dove Sant’Elia cadeva ferito per la prima volta, Marinetti scopriva la follia della guerra dal chiuso delle sue macchine blindate e Gadda snocciolava i colpi della sua mitragliatrice, reinventando lingua e dolore.

Oggi la “Casa” deve conoscere un'altra vita e un altro uso, non vi è alcun dubbio! Deve dimostrare di poter resistere alla prova della liberalizzazione dell’accesso, che certo toglierà un po’ di fascino al suo mito.

Deve diventare un museo, ma non troppo, sia perché lei stessa di una certa idea di museo costituisce l’antitesi culturale, e sia perché sarebbe anacronistico, per un’opera che pur nella sua “distanza” ha saputo “prendersi cura” della sua piccola fetta di mondo, ritrarsi in sé occupandosi solo della propria storia.

Se la città non è mai stata veramente per lei un corpo estraneo, da domani la città può entrare, ancor più profondamente, nei suoi spazi sperimentando una compenetrazione che Terragni aveva intuito e altri, invece, non avevano voluto vedere.

In fondo, la Casa del Fascio è sempre stata il pezzo forte di un itinerario che si dipanava nel corpo di Como e ancor più lo può essere oggi se aprirà i suoi spazi, se ospiterà ulteriori testimonianze delle sue premesse, delle sue parentele, delle sue conseguenze.

Se non sarà un oggetto ma la tappa centrale di un percorso più ampio di conoscenza. In fondo, essa ha dimostrato di poter sopravvivere anche agli usi incongrui – ma se consideriamo le molteplici trasformazioni di cui sono stati oggetto i monumenti italiani spesso sono proprio gli usi incongrui ad averne preservato l’esistenza – oggi merita di sviluppare la sua intatta vitalità con un uso congruo. E merita che i suoi spazi ancora poco noti vengano frequentati da molti e messi alla prova di quella contemporaneità che non ha mai completamente potuto conoscere, protetta com’era dalla segregazione e dal mito. E che si dia inizio ad una nuova fase della sua vita.

Brescia-Roma-Milano-Brescia, 1° giugno 2017

Alberto Ferlenga, rettore dell'università IUAV di Venezia, curatore del settore architettura della Triennale di Milano, autore di Architettura del Novecento (con M. Biraghi) edita da Einaudi e di numerosi volumi tra cui le monografie su Aldo Rossi, Dimitris Pikionis, Hans Van der Laan (con P. Verde), Joze Plecnik e Lubiana (con S. Polano), oltre che di saggi e articoli apparsi sulle principali riviste internazionali, è membro del comitato scientifico istituito a supporto dell'iniziativa di raccolta firme, tutt'ora in corso sulla piattaforma change.org., “Per un museo del razionalismo nell'ex Casa del fascio di Como” promossa da MADE IN MAARC.


RECENT POST
bottom of page